| Francesco LaurettaIl mio atelier Il mio atelier I. Non ho mai avuto uno studio. Gli studi li ho sempre visitati, attraversati. Pochi, peraltro. Ho frequentato pochi artisti, quasi nessuno adesso. Sono stato ospite in uno studio per circa un mese, tra novembre e dicembre del 2013, a Palermo. E questo è tutto. Il mio studio è nella mia testa e la mia testa è vagante e ampia. Temo di assomigliare a Kien, lui aveva una libreria in testa, io un atelier.
(Ospite nello studio di FDG) II. Ogni notte salivo le scale, cieco. Strano per me salire su, pochi gradini mi erano necessari per comprendermi in trappola, una trappola vissuta intensamente come fossi a due passi dalla morte e dagli addii. Alcune notti mi fermavo davanti al Cristo illuminato dai ceri che i fedeli accendevano, devoti. Lo salutavo. Piegavo le gambe e pregavo o, meglio, sussurravo cose a lui incomprensibili. Allungavo le mani e carezzavo l’immagine, la barba rossastra, i suoi occhi. Ero perfetto nell’oscuro, assorbito. Così stavo. Pregavo. Mi pregava. Stare così mi aiutava a sentirmi lontano, distante da quello che sono e vicino a quello che in fondo avrei voluto essere, e che mai sarei stato. Mi ricomponevo, poi. Continuavo la salita, pochi gradini erano ma bastavano per entrare dentro la Bocca, l’aperto. Con lentezza straordinaria prendevo le chiavi e al buio cercavo con la mano sinistra il buco della serratura. Trovato infilavo la chiave, giravo piano, senza fiatare. Aprivo. Aprivo e la luce della notte che veniva dalla via Vittorio Emanuele mi attendeva, espansa. A volte era blu. Altre volte era marrone o gialla, viscosa. Aggiravo la luce e cercavo la poltrona a sinistra, strisciavo o mi arrampicavo per sfuggirle e una volta raggiunta la poltrona, cadevo, precipitavo nel mio stato sognato, anzi vivo, l’unico vivo.
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