EDITORIALE Una mostra non è (solo) una mostra. E’ un’opera? E’ anche la messa in discussione dell’opera, dell’idea tradizionale di opera. Tanto più se è un gruppo a farla. Chi ha fatto cosa? Cosa si pensa insieme? Che cosa si mette in comune? Non sembrino domande esagerate in una occasione che rivendica esplicitamente un pathos per la forma e per le forme. Dunque: dai “pezzi” alla mostra al desktop come noi lo intendiamo, questo il percorso obbligato per noi. Tanto più questa volta in cui, lo si noterà, il desktop è rivendicato come una forma dentro la mostra stessa. Ancora siamo convinti non dell’applicazione dei contenuti e del riempimento con le parolone, ma dell’invenzione delle forme e del senso cheesse stesse trasmettono, così alle formule del pathos apponiamo il pathos delleforme. Mentre da Warburg abbiamo imparato il montaggio, il buonvicinato, il fondo nero, le sopravvivenze, l’anacronismo, che naturalmenteabbiamo tradotto a modo nostro e attualizzato, di nostro ci abbiamo messodell’altro e di mano in mano abbiamo costruito il nostro “Atlante”. Siamo partiti con l’idea di lavorare con quanto si ha adisposizione, di non andare a fingere di prendere dove né le nostre mani né lenostre menti possono arrivare: ai grandi contenuti, alle enormità, agli impegnidisillusi abbiamo contrapposto i “tavoli”, cioè appunto i piani che abbiamorealmente a disposizione. Su di essi abbiamo guardato ciò che vi era ammassato,quali erano i materiali e gli argomenti che avevamo a disposizione e da lì cisiamo accorti che un filo correva tra di loro, e che questo filo nasceva dagliaccostamenti, dal raggruppamento, dalla scoperta più che dall’illustrazione diun contenuto o partito preso preventivo. L’arte contemporanea stessa è un tavolo: le forme sono tuttea disposizione, le già note non hanno più la potenza intrinseca della specificitàche le rendeva esclusive; le avanguardie hanno reso forma artistica qualsiasimateriale e comportamento alla ricerca, qual era, di un’altra arte, di un’altraforma, di non dare per chiuso un modo; ea noi ne piacciono e interessano molti,non uno solo: l’oggetto, il gesto, la conferenza, la musica, il video possono edevono essere montati tra loro. Senza rinunciare all’opera, perché non c’è forma senzaopera. Tutto anzi deve essere pensato e fatto come opera, cioè come qualcosa dicompiuto, perché la compiutezza garantisce l’autosufficienza e rende viva laforma, non solo rivendicabile dall’autore ma parlante all’osservatore. È questala forma. Oggi diciamo: non è un caso che di fronte a un’opera d’arte tutti simettano spontaneamente nella posizione di ciò che essa rappresenta, nellaposizione del David o del soldato nel monumento celebrativo, perché vienespontaneo seguire ciò che dice l’arte; e non è un caso che siano i gesti adessere mimati, perché il gesto è la forma sospesa dell’azione, sospesa ecompiuta come immagine, è “opera” appunto. Qualcuno ha paura della frammentazione, della minacciadell’arbitrarietà, della non classificabilità del risultato finale, per noisono i segni della ricerca e del lavoro in gruppo. Ciascuno ci mette del suo,in sintonia con l’insieme, con le posizioni che di mano in mano si costruiscononella misura in cui le si condivide. Il lavoro di gruppo è a sua volta un montaggio,permette di mostrare ciò che nel singolo pare contraddittorio e invece èvicino, collimante, adiacente: il “tutto quello che ho da dire” di Andrighettosfuma nel dubbio di essere davvero di fronte a un evento di Codeghini "e nella indefinibilità della posizione del sottoscritto", e insieme si mostrano comel’altra faccia dell’insistenza e voluta apoditticità di Bellini, il quale d’altrocanto non esita ad evidenziare i vuoti sia delle scene di soap opera così comedei quartieri delle città; tutti lavorano sullo spazio di separazione tra lecose, i generi, le arti, vi si infilano per cercare altre possibilità. E il gruppo non è un gruppo nel senso chiuso del termine, mamonta insieme ai propri materiali quelli di altri, su invito, per affinità, perrimando, per risonanza. D’altro canto il vero inizio del gruppo fu il carteggioepistolare raccolto poi nel volume omonimo, cioè una ricerca di corrispondenza,uno scambio, la definizione degli interlocutori. Poi è venuto il sito web. Passo scontato, si dirà, ma anchenecessario, perché i tavoli, i concerti sinottici, le corrispondenze avevanoun’affinità intrinseca con la forma del sito, per come è fatto, montaggio diinterventi e materiali, con in più una libertà ancora maggiore che andava dunquee va regolata con un supplemento di rigore e attenzione. Nascono così i “desktop”,ognuno strutturato secondo un tema, un’idea. Dopo aver seguito da vicino Warburg, qui ci permettiamo ilgioco del rovesciamento per segnare la nostra autonomia e rivendicare ora altreforme e altri contenuti. Un assaggio è nei lavori di ognuno degli artisti delgruppo, al visitatore attento coglierne i caratteri e proseguire la riflessioneinsieme a noi. |
Elio Grazioli e Dario BelliniDICIAMO COSI' N°1 D. Tornato? |
Aurelio AndrighettoSFERA SENZA REQUIE Tavolo Sonoro, 2002/2012. Bronzo, granito del Labrador, acciaio satinato. |
Dario BelliniCIO' CHE E' REALE E' RAZIONALE L’interno di un bar verso la fine di Fondamenta Venier, Cannareggio a Venezia, con mappe geografiche alle pareti. Vitruvio insiste con una penna a segnare un punto al limite della superficie più o meno a metà del lato sulla tovaglia bianca di carta che copre il tavolo di legno, mentre Joseph Rykwert lo guarda. Quasi sempre lunghe pause tra le battute. (Rykwert è impersonato da se stesso.) Rykwert (dopo un po’): Un punto sul margine... Vitruvio continua il suo lavoro con accanimento. R: Quasi dentro... e non abbastanza fuori... V: Gli dei vogliono che sia fatto... R: Una dilatazione? V: Anche. R: Eppure su un lato o, meglio ancora, verso una tensione altrove. V (perplesso): Altrove?! R: Spostato nell’immaginazione... V: Ma gli dei... R: Sì, capisco! Vitruvio è ancora sul punto con la penna. R: Un solco... Vitruvio lo guarda e per la prima volta stacca gli occhi dal tavolo, poi ricomincia a segnare il suo punto. R: In un solo punto... (Dopo un po’) Non è quindi un solco! V: E neanche uno strumento per tracciare! (fissa sempre il tavolo da vicino) Rykwert si mette a disegnare un capitello corinzio sulla carta della tovaglia, come distrattamente, mentre pensa. Per un po’ disegnano entrambi. V: Non riesco... (come se da quel segno dovesse scaturire qualcosa) R (tra sé): Strano accanimento... (A Vitruvio) Non conosco nessun punto così oggigiorno! Vitruvio sbatte la penna sul tavolo e si alza; si guarda attorno: carte geografiche alle pareti laterali. R: A meno che i solchi siano scavati nelle coscienze e siano invisibili. V: Avrei qualcosa da ridire su questo! R: Del resto... V: La periferia è indistinta... (come se vedesse oltre le pareti, entrambi tacciono e sospendono la matita senza disegnare) R (fa per rispondere ma si ferma): ... V (come se si rassegnasse all’idea): Comunque non è detto che io debba aver ragione... R: Non penso questo. Si fa per dire... V: I lati sono troppo lontani, non si vede la corrispondenza... R: A volte non c’è corrispondenza. V: Già! R: E dovrebbe? V (rianimandosi): Certo che dovrebbe! R (riflettendo): Certo... V: Non vi è alcuna città, altrimenti! R: Le forme sono infinite, e le città pure... V: Gli dei non vogliono. R: Tutto ciò che è reale è razionale! V: Non scherzare. R: E perché mai? Vitruvio torna a sedersi. R: Come vuoi. I vuoti di cui parli, quelli tra i lati troppo lontani, sono comunque delle proiezioni. V: Tutto questo mi sfugge. R: Nemmeno a me piace, V: Quindi (con ironia) non tutto quello che è reale è anche razionale! R: No... Vitruvio si alza di nuovo, prende un drappo dalla sedia ed esce. Rykwert si alza, toglie un cappotto dall'attaccapanni e lo raggiunge. Si allontanano insieme in direzione del ponte dei tre archi, confabulando. Buio. |
Elio Grazioli e Dario BelliniDICIAMO COSI' N°2 E. ... Un’immagine è un immagine è un’immagine… D. Una rosa… eccetera? E. Si! D. E quindi? E. È neoclassicismo, no? D. Arte al cubo… E. È sempre così… D. E anche nei libri, però. E. Ha a che fare con la cultura… non è un peccato! D. Non lo è. E. No, non lo è! |
Aurelio AndrighettoHOMEPAGE Bandiera Homepage per Il pathos delle forme. Da un progetto di Aurelio Andrighetto, Riccardo Sinigaglia e Costanzo Zingrillo: PC e Mac http://www.homepageproject.it/HPPWEB.html tablet e smartphone http://www.homepageproject.it/HPP.html |
Elio Grazioli e Dario BelliniDICIAMO COSI' N°3 E. Pronto? |
Dario BelliniSENZA TITOLO Mi voglio comportare come quei turisti che si fanno fotografare vicino alle sculture copiandone le movenze. Penso a questo: di mettermi nella posa che l’arte mi indica. Cioè seguire lo slancio. E protendermi secondo la direttrice della forma. Si tratta di capire bene quanta portata ha una forma, cioè fin dove arriva, quanta vallata abbraccia o, come dicono i costruttori, quanta luce intercorre. L’arte si picca di modellare il mondo al di là dell’estremità delle dita. Marc’aurelio governa quel mondo che regge con la mano sinistra protendendo dita appena distese della destra. Tra le case ovunque esistono intervalli, anzi no, cesure, ché gli intervalli comunque uniscono mentre ciò di cui parlo è un taglio, cioè una interruzione del discorso. Perché non sa tener conto dei discorsi fatti precedentemente, non sa vedere le sfumature e riprendere da dove si era lasciato in sospeso. L’arte unisce e getta ponti. Invisibili maglie di senso che vorrebbero sfiorarsi e procrastinare il loro effetto oltre le dita protese. Ecco perchè voglio sembrare uno di quei turisti che scimmiottano le sculture classiche e si fanno fotografare in posa. E che mi sembra ora un gesto meno idiota di quanto pensavo solo l'altro ieri. Prendo su di me la movenza di Pallade Atena o del Discobolo, mi protendo a fare come se fosse formato... conformato ad arte. A ripetere come un manierista le belle forme, ma un po’ diverse. |